Se avessi provato a scrivere qualcosa del genere ora, avrei senza alcun dubbio miseramente fallito. Non ho più l’età per farmi sentire svilita da quattro parole, dette da qualcuno la cui massima aspirazione è farsi odiare (NB: se ti può consolare, dal mio punto di vista ci riesci benissimo). Mi sono, quindi, limitata ad aggiustare giusto qualche vocabolo qua e là, concedendomi la licenza poetica di elidere l’ultimo verso. Ciò non per il timore che la persona a cui questa poesia è dedicata possa sentirsi offesa dalle mie parole, anche perché dubito fortemente sia semplice riconoscervisi, bensì per via del fatto che la precedente chiusura poetica, malgrado l’odio da “ormoni dell’adolescenza”, fosse, a mio avviso, troppo soft; un tocco di classe che la Sarah ventiquattrenne non avrebbe. Quindi, dato che a scriverla è stata una adolescente di sedici anni e a pubblicarla un’adulta di ventiquattro, ho preferito concedere al lettore la possibilità di trovare da solo una chiusura più o meno poetica. Una cosa, però, l’ho imparata; grazie per avermi insegnato tanto, ma soprattutto per avermi insegnato a non essere come te.

Pelle bianca, la morte sembra già averti preso,
capelli come la paglia, e non per il colore,
sul viso piccole fessure di un nero acceso,
a noi, oh miseri, ci procurano dolore.
L’effetto che susciti quando varchi le soglie,
è quello che causa un inaspettato malore.
Ci par di essere donne incinte con le doglie,
chinati giù, come sul pestilente l’untore.
Ogni tua parola accentua il fetido sudore,
lo sguardo che viaggia aumenta i battiti del cuore,
sprofondi nell’inferno, emergi con ardore.
E quando il tuo passo riecheggiando si allontana,
ci alziamo stremati come l’uomo dalla sottana,
pensando: “Fatti una vita, ….”