Ho perso il conto degli aerei presi negli ultimi tre anni; delle ore passate in aeroporto, degli interminabili scali per risparmiare qualche euro, del numero di accessi giornalieri sull’app “Wizzair” alla ricerca di un volo economico per poter tornare a casa.

Casa.

E’ questo il problema.

In tre anni, non ho mai preso un volo, che non fosse con l’unico scopo di tornare a Catania, eccetto un paio di giorni passati a Cagliari e Malta a casa di amici.

Mai un viaggio in una destinazione di mio interesse, mai un fine settimana fuori, mai una fuga lontano dalla routine di tutti i giorni.

Non ricordo neanche l’ultima volta, in cui mi sono brillati gli occhi davanti ad un’opera d’arte, un museo, un palazzo.

Mi è mancato quel brivido che ti sale lungo la schiena, spaventata ed eccitata per una nuova avventura.

Non fraintendiamoci.

Adoro tornare a Catania, che sia per piacere o per dovere, ma ormai la conosco come le mie tasche; inoltre, per quanto sia grande, giri che ti rigiri incontri sempre le stesse persone, che fanno sempre le stesse cose, che si rivelano gli stessi coglioni di sempre.

Così, un mese fa, non so perché, in un impeto di coraggio, ho comprato un biglietto aereo per Parigi; una città che ho sempre voluto visitare, incuriosita dalla sua storia e dalla sua arte.

E l’ho fatto da sola.

Mi sono detta, che, a furia di rimandare un viaggio che ho sempre voluto fare, avrei rischiato di non farlo mai.

Ho avvertito un paio di amici, e chi si è visto, si è visto.

Il primo “solo-trip” non è semplice, perché, per quanto io fossi stata abituata a visitare una città con gli occhi incuriositi di una bambina, che vede per la prima volta un nuovo giocattolo, la sera, a casa, avevo sempre avuto qualcuno ad aspettarmi.

Stavolta, no.

Sia che fossi tornata in hotel, che non, nessuno se ne sarebbe accorto.

Probabilmente neanche quelli della reception; dei tipi loschi, sottopagati, incapaci di parlare inglese, o qualsiasi altra lingua, eccetto il francese, ed entusiasti nell’apprendere che, quantomeno, fossi in grado di comprenderli.

E anche qualora non ci fossi riuscita, sti cazzi!

Premetto che io odio visitare una città e andare per musei con altre persone, perché ho bisogno dei miei tempi, che siano due ore o dodici. Quindi, sono stata ben contenta di poter girovagare indisturbata mattina e pomeriggio, senza dover rendere conto dei miei spostamenti.

Inutile, elencarvi le opere viste, e il mio stupore nel constatare, che la piantina del Louvre e la disposizione dei padiglioni sono più confusionarie dei miei appunti di matematica.

Probabilmente per questo la gente crede ci vogliano due giorni per girovagare tutto il museo; invece, una volta compresa la planimetria (e si tratta già di una conquista), basterà una giornata intera per visitarlo tutto o quasi.

Il problema, infatti, non è la grandezza del museo, ma l’indigestione di arte e il senso di claustrofobia, che si impossessa di te dopo cinque o sei ore passate lì dentro, senza poter fumare, parlare, e spesso camminare.

Ah, e la fila per la Gioconda, un quadro minuscolo e anche piuttosto bruttino, considerando che nella sala adiacente troviamo la “Vergine delle rocce” di Da Vinci, è più ridicola, della mia scelta di studiare Finanza, sapendo a malapena la tabellina del nove.

Ho apprezzato il Louvre e credo che sicuramente ne valga la pena, ma non amo molto i musei mastodontici, che ti divorano in una dimensione spazio/temporale, dove ti senti in colpa all’idea di andartene senza aver visto tutto, ma al contempo il solo pensiero di continuare a vagare per quelle stanze disorganizzate ti fa venire l’emicrania.

Placcata da una guardia, che continuava a fissarmi, chiedendomi di bere qualcosa insieme dopo, fuggita da un branco di scolaresche, spaventata dalla quantità di italiani incontrata, mi sono poi diretta alla Galleria Delacroix, che si trova poco distante, avvolta da minuscole stradine, ricolme di gallerie d’arte.

Il tramonto sulla Senna insieme ad un amico, la mia amata carne Bourguignon in un ristorante talmente piccolo da dover essere vietato alle persone sovrappeso, e della techno tunisina in un locale un po’ expat, un po’ erasmus, un po’ losco, un po’ underground hanno concluso quella che credevo sarebbe stata la giornata più bella della mia vacanza.

E mi sbagliavo.

Il giorno dopo, gia nauseata dal pain ou chocolat affogato nel burro del giorno prima, ho preso delle barrette in un supermercato vicino e mi sono recata al museo d’Orsaay, che, posso dire tranquillamente, essere stata l’attrazione più bella vista in tre giorni.

Confusione? Si.

Arte? Si.

Ci riandrei? Riportatemi a Parigi.

Tra un piatto di noodles a volo (lo so, ma a me la cucina francese non piace), un maranza italiano, che, inconsapevole delle mie origini, ha cominciato ad elogiare la mia bellezza in maniera poco sopraffine, un vecchio pelato, vestito di rosa, come Peppa Pig, che mi ha inseguita per il Pompidou, sono arrivata alla consapevolezza, che quest’ultimo offre talmente tante attività diverse tra laboratori e librerie, che solo dopo un’ora ho capito che le opere d’arte erano agli ultimi piani e per raggiungerle fosse necessario uscire dall’edificio, affrontare la furia di Eolo, prendere un ascensore, fare una capriola, una piroetta e poi “ciao Picasso!”.

Consapevole dei chilometri affrontati e delle condizioni precarie dei miei genitali dopo una giornata fuori e tra un assorbente e l’altro, sono tornata in hotel, per darmi una rinfrescata e cambiarmi, sapendo che nel giro di un paio di ore avrei visto la mia ex collega Sara, che si e’ trasferita a Parigi in cerca di nuove avventure.

Quartiere Isole, vino rosso, freddo, ristorante napoletano, patata ripiena, freddo, discorsi su affitti, lavori, precarietà generale di una generazione che forse ha solo la colpa di essere frutto di atto di puro egoismo insito nella nostra società che ci spinge alla riproduzione, sono tornata in hotel, a stomaco pieno e portafogli vuoto.

Conseguenza che dovete tenere in conto se deciderete di andare a Parigi.

Domenica, il mio ultimo giorno, ho visitato Montmartre, la chiesa Sacre Coeur, la piazza principale e mi sono, infine, rifugiata nel museo Dalì, in cerca di riparo, scoprendo uno dei luoghi meno citati e piu interessanti della zona.

Sarà anche perché’ ho un debole per Dalì.

In attesa del pranzo, ho visitato dall’esterno il Pantheon e la chiesa poco distante, per poi recarmi al Moulin Rouge, unica tappa inutile di questo viaggio, tanto quanto la Tour Eiffel, a cui, infatti, non mi sono neanche avvicinata.

Ho mangiato ad una Boudeigelle, sbagliando ordinazione per quanto riguardo la carne – come vi viene in mente di servirla su un letto di pasta in bianco – ma scoprendo la zuppa di cipolla, che potrebbe diventare uno dei miei piatti preferiti (francesi), e provando persino la ratatouille, che alla fine non è altro che una caponata che non ce l’ha fatta.

Concludo questa riflessione, dicendovi che Parigi è bellissima, che vi tornerò sicuramente per le Catacombe e per altri musei, e che viaggiare da soli è una figata pazzesca.

Sarah

Ho conseguito la laurea in "Design di Interni' presso il Politecnico di Milano; esperienza che mi ha consentito di combinare creatività e progettazione attraverso la realizzazione di spazi intangibili, padiglioni e temporary store. Successivamente, ho deciso di dare un’impronta più manageriale al mio percorso accademico attraverso un master in “Strategic management for global business”, a cui ha fatto seguito un’offerta lavorativa a Praga, dove attualmente mi trovo, lavorando come Project manager junior per una multinazionale. Nonostante il mio percorso sia cambiato nel corso di questi anni, l’arte e il design, nelle loro varie sfumature e sfaccettature, continuano a suscitare in me sempre un grande fascino. Nonostante tutto, rimango dell’idea che management e creatività possano essere facce di quella stessa medaglia, chiamata "innovazione".